Ru scippacentrell

Un giorno mi trovavo ad assistere ad uno spettacolo, all’Auditorium di Isernia, quando, durante un intervallo sentii, alle mie spalle, un gruppetto di giovani che parlava, rideva e qualcuno pronunciò la frase: “Ha pigliato ‘na scippacentrelle!”

Incuriosito mi girai e chiesi: “Scusate, mi sapreste spiegare cosa è per voi lo scippacentrelle?” Cercarono di darmi una risposta, ma capii che non ne conoscevano il significato etimologico. Ecco perchè ora voglio spiegare alle nuove generazioni il significato di un temine isernino (o iserniano): 'ru scippacentrell', attraverso un breve racconto della mia infanzia. A Isernia, tanti e tanti anni fa viveva una comunità di cittadini che poteva definirsi, senza dubbio, una grande famiglia: ci si conosceva tutti, ci si rispettava e ci si voleva veramente bene. C'erano anche membri di famiglie altolocate, eredi di proprietari terrieri, ai quali puzzavano un poco i baffi, ma i ''cafoni'' li sopportavano comunque. C'era e si faceva cultura e la classe medio-borghese, per lo più impiegatizia, riempiva il Cinema-Teatro “Italia”, l’attuale Comune, i diversi circoli culturali e politici e, soprattutto, la strada che univa la stazione ferroviaria con le Terme dell'''Acqua Zolfa''. La gente raggiungeva le Terme con vari mezzi: le primissime automobili, le carrozze trainate da cavalli e, soprattutto, a piedi. Era un bel vedere! Il centro storico si animava di sera quando i tanti cittadini, che vivevano coltivando cipolle ed ortaggi, con sacrificio, nei tanti orti, che circondavano la città, ritornavano a casa tirando o seguendo gli asini stanchi sotto la pesante soma. Era un allegro vociare: ci si chiamava, ci si raccontava quanto era successo durante il giorno ed i bambini felici scorrazzavano per Corso Marcelli: “cap' a 'ball' e cap' a 'mond'”, mentre i più grandi amoreggiavano ''virtualmente''. Di giorno, invece, quando non c'era mercato, il Corso era quasi del tutto deserto, così come Piazza Duomo; oltretutto, i pochi vecchi erano seduti con i loro vestiti di fustagna ed il volto rivolto al sole, fumando uno strano tabacco con pipe di terracotta ed il loro volto era sereno e, quasi, felice. L'acqua in casa non tutti l'avevano ed allora toccava alle donne andare al pozzo o alla Fontana Fraterna a riempire di acqua le conche di rame ed i loro canti ed il fruscio delle loro larghe gonne di tela ruvida animavano le ore assolate. I pochi abitanti, in età di lavoro, che passavano, si dividevano in due categorie: i fortunati ed i meno fortunati e li potevi subito riconoscere da ciò che portavano ai piedi. I più disgraziati calzavano 're 'zampitt', calzari fatti di gomma, tenuti stretti da corde intorno alle caviglie dove prima erano state sistemate fasce di lino grezzo. I fortunati, invece, calzavano scarponi di cuoio, che, però, quando si muovevano procuravano, sul selciato, uno strano e fastidioso ticchettio. Mi spiego, quando si compravano ai mercati o alle fiere degli scarponi nuovi, gli stessi, prima di entrare in casa, venivano portati dagli ''scarpari'', che li guarnivano di centrelle, chiodi dalla testa larga, che dovevano aiutare le suole a resistere al tempo ed alle intemperie. In quei tempi, mio padre mi regalò un paio di scarponi, avvicinandosi anche la brutta stagione, arricchiti da tante centrelle ed io ne fui orgoglioso, perchè, anche essendo piccolo, avevo già capito di appartenere alla categoria dei ''fortunati''. Quella mattina uscii felice da casa, abitavo nel palazzo Ciampitti, quell'abitazione che fiancheggia la Chiesa di Santa Chiara, là dove inizia la strettoia e dove, da sempre, si trova la macelleria Fantini. Mentre camminavo mi pavoneggiavo, mi sentivo importante ed anche più alto: le suole erano massicce e le centrelle ne aumentavano lo spessore. Camminavo con movimento ritmico, quasi a suono di tip-tap e mi immaginavo un soldato, un uomo importante, un cavaliere di cappa e spada ed ecco che, prima lentamente, poi sempre più forte, iniziai a correre imitando il trotto del cavallo. Sempre più forte, sempre più veloce ed.... eccomi a terra! Sentivo un dolore lancinante alla fronte ed al labbro superiore, mentre un filo di sangue usciva dall'arco sopracciliare. Il dolore più grande, però, era quello psicologico; non avevo la forza di alzare il volto da terra immaginando i sorrisi ironici. Parecchi si avvicinarono per sollevarmi ed un anziano mi prese per le braccia, mi alzò e, poi, mostrandomi a tutti, con fare sconcertante, disse: “Nient' nient' 'e pigliat' 'na scippacentrell'”. E tutti, rassicurati, ritornarono a fare quello che facevano ed io capii che si può cadere anche se ai piedi hai delle vere scarpe! In chiusura, per meglio chiarire a chi non avesse capito, il signore così umano che mi aveva sollevato, aveva spiegato ai presenti, e tutti avevano capito, che nel selciato c'era una pietra, che leggermente sporgeva dalle altre e che aveva impattato e scippato una delle tante centrelle che erano sotto le suole delle mie scarpe. Spesso ripassai a rivedere ed a maledire quella pietra, che sembrava così inoffensiva, ed un giorno vidi vicino a questa una centrella ''scippata'' ed allora capii che la stessa aveva fatto un'altra vittima.